INTRODUZIONE
STORICA
La
sciagurata campagna di aggressione alla Grecia (inizio 28 Ottobre
1940) condusse un esercito penosamente impreparato ad impantanarsi per
mesi in
Albania.Quando gli italiani arrivarono in Epiro (Aprile 1941) trovarono
la
Grecia già occupata dalle truppe tedesche, partite poche
settimane prima dalla
Romania.La Divisione Acqui , già impegnata nel '40 -'41 sul
fronte occidentale
e poi in Albania ed Epiro, venne destinata alla fine del '41 a
presidiare le isole
ioniche.
Gli
effettivi complessivi della Divisione Acqui, più i reparti
aggregati,
erano di oltre 13.000 uomini, 11.500 dei quali a Cefalonia, 800 a
Corfù, 400 a Zante, 70 ad
Itaca. Ad
essi vanno aggiunti i circa 4.000 soldati provenienti da Santi
Quaranta, che
sbarcarono a Corfù il 13 settembre 1943, al comando del Col.
Elio
Bettini, che aveva
preso l'eroica decisione di rafforzare la guarnigione di
Corfù, per resistere
al tentativo di sbarco tedesco.
La
Divisione Acqui
al comando del
Generale Luigi Mazzini, dall’ aprile del 1941 occupava le
isole Jonie dell’
Eptaneso (arcipelago di sette isole del mar Jonio).
Essa era distribuita principalmente nelle isole
di Corfù , Cefalonia e Zacinto; piccoli reparti erano
inoltre distaccati nelle
isole di Santa Maura (Leucade) , Paxos e Itaca.
Il presidio dell’ Eptaneso , vista la sua
posizione geografica a ridosso della costa Greco-Albanese e a poche
miglia
dalle coste italiane, aveva come fine il controllo del canale di
Otranto e del
porto di Patrasso, per timore che le forze alleate potessero attaccare
quella
zona aprendosi un varco e, arrivare al cuore della Germania attraverso
la
Yugoslavia e l’ Austria.
L’ occupazione delle isole Ioniche fu molto
pacifica: fino al
settembre 1943 non si
verificarono episodi di violenza armata, vi furono solo episodi tesi al
controllo
della resistenza greca che culminarono con l’ arresto e la
carcerazione di
alcuni ribelli che facevano parte del movimento partigiano delle isole.
La popolazione civile, pur considerandoli
nemici, cominciò presto a convivere in modo amichevole con i
soldati italiani,
i quali, visto la fame e la miseria che regnavano in quel periodo,
divisero
spesso quel po’ che avevano da mangiare soprattutto con i
bambini delle
famiglie greche.
A conferma di questo tipo di convivenza si
verificarono, durante l’ occupazione, più di
duecento matrimoni fra i nostri
soldati e le donne isolane.
In Italia nella tarda primavera del 1943 il
regime fascista cominciava a vacillare e, visto l’ andamento
fallimentare della
guerra, iniziava a perdere il consenso popolare. Una parte dello
stato maggiore
dell’ esercito stava tramando
allo scopo
di destituire Mussolini tramite un colpo di mano.
I tedeschi che erano tutt’ altro che un
esercito impreparato, avevano capito che l’ Italia non
avrebbe potuto
continuare la guerra ancora per molto e seguendo questa considerazione,
i
nostri alleati, predisposero un piano denominato
“Alarico” (in precedenza Acse),
il quale prevedeva, in caso di resa del nostro governo, di affiancare
le truppe
italiane nei presidi di loro competenza allo scopo di recuperare le
aliquote
disposte a continuare la guerra al loro fianco, neutralizzando,
disarmando e
inviando nei campi di prigionia il resto.
Fu così, che dopo la destituzione di Mussolini
da parte del Re e la conseguente caduta del Fascismo, avvenuta il 25
luglio
1943, il presidio delle isole Ionie, fino ad allora di solo stampo
italiano,
diventò un presidio misto con l’ arrivo, dal mese
di agosto di contingenti di
truppe tedesche.
Dal 20 di giugno il comando della divisione
Acqui era passato al generale Antonio Gandin che dalla fine del 1940
aveva
diretto l’ ufficio operazioni del Comando supremo ed era ben
consapevole del
dispiegamento delle forze tedesche in tutta Europa e soprattutto nei
Balcani;
era inoltre insignito, oltre alle altre decorazioni, della croce di
ferro
tedesca di I classe.
A
Cefalonia i tedeschi si stabilirono nella parte occidentale
dell’ isola e precisamente
nella penisola di Paliki; installarono
il loro quartier generale nella cittadina di Lixuri e in quella zona
rimasero
solo due nostre batterie di artiglieria, precisamente a Chavriata e San
Giorgio. Il resto del nostro contingente militare continuava
ad occupare la parte orientale dell’
isola con il proprio Quartier Generale nella città di
Argostoli che era anche la
capitale di Cefalonia. I rapporti tra i nostri soldati e quelli
tedeschi erano
pacifici anche se non del tutto sereni e amichevoli. Questo stato di
cose
proseguì fino al mese di settembre quando, il giorno 8,
Badoglio pronunciò l’
armistizio.
"Il governo italiano, riconosciuta l’
impossibilità di continuare la impari lotta contro la
soverchiante potenza
avversaria, nell’ intento di risparmiare ulteriori e
più gravi sciagure alla
nazione, ha chiesto l’ armistizio al generale Eisenhower,
Comandante in Capo
delle forze alleate Anglo-Americane. La richiesta è stata
accolta. Conseguen-temente
ogni atto di ostilità contro le forze anglo americane
dovrà cessare da parte delle
forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad
eventuali attacchi da qualsiasi
altra provenienza."
A
Cefalonia questa notizia arrivò improvvisa e
inaspettata tramite radio alle ore 19 dell’ 8 settembre 1943
cogliendo tutti di
sorpresa. Subito vi furono esplosioni di gioia da parte dei soldati
italiani,
della popolazione civile greca e dei soldati tedeschi. In tutta
l’ isola si
sentivano suonare le campane e si udirono colpi di fucile sparati in
aria. Per
questa gente la guerra era finita e prendeva corpo la speranza di un
imminente
ritorno a casa. Lo stesso entusiasmo non regnava però negli
uffici del comando
di divisione e nell’ animo degli ufficiali dei vari reparti i
quali, non avendo
istruzioni precise dal governo legittimo, si chiedevano già
quale sarebbe stata
la reazione tedesca.
Nell’
isola in quel momento c’ erano circa
12.500 soldati italiani e circa 2.000 soldati tedeschi. Il 9 settembre
arrivò
un cifrato dal comando di corpo d’ armata con sede a Gianina,
in Grecia, che
ordinava la cessione ai tedeschi di tutte le armi collettive ma non
quelle
individuali. Questo cifrato creò dubbi sulla sua
autenticità. Come avrebbe
potuto la Divisione difendersi da eventuali attacchi di altra
provenienza se si
fossero cedute le armi? A chi bisognava ubbidire? Al governo legittimo
o al
comando di corpo d’ armata? Si pensò inoltre che
il comando di Gianina fosse
già caduto in mano tedesca e che l’ ordine fosse
stato inviato sotto la
minaccia delle armi. Il 10 settembre il ten. Col. Hanse Barge si
presentò al
comando italiano a nome del comando di divisione tedesco pretendendo la
completa cessione delle armi promettendo in cambio il pronto rimpatrio
della
Acqui. Questa cessione avrebbe dovuto avvenire nella piazza principale
di Argostoli
alla presenza della popolazione greca.
Il
generale Gandin convocò a rapporto tutti i
comandanti di reggimento e , in questo primo consiglio di guerra
prevalse il parere
di cedere le armi collettive ma non quelle individuali.
Nel
frattempo la resistenza greca cominciò a
fare propaganda di insurrezione contro il soldato tedesco fra le truppe
italiane. I partigiani greci contattarono alcuni ufficiali minori
italiani
chiedendo armi e munizioni in cambio di una fattiva collaborazione in
caso di
scontro armato.
Visto
il rapporto di mezzi e uomini largamente
favorevole alle forze italiane i soldati, guidati da alcuni ufficiali
che non
volevano la cessione delle armi, pensarono che attaccando subito i
tedeschi si
poteva giungere a una rapida vittoria in attesa degli alleati che erano
già
sbarcati in Sicilia. Le trattative del generale Gandin con il comando
tedesco
intanto continuavano; fra i due comandi si decise per lo
“status quo”: gli
italiani non avrebbero intrapreso azioni di guerra e i tedeschi non
dovevano
far arrivare rinforzi dal vicino continente. Il nostro generale
affermò che
ogni movimento di uomini e mezzi sarebbe stato interpretato come azione
di
guerra.
Le
tensioni fra soldati italiani e tedeschi
intanto crescevano; una nostra batteria bloccò un
contingente, sulla rotabile Kardacata-Argostoli,
che tentava di raggiungere la città per rinforzare il
presidio tedesco ivi
esistente. I tedeschi nel frattempo avevano
catturato le nostre batterie che erano nella penisola di Paliki. Nella
nostra truppa
fomentava il dissenso contro l’ intenzione di cedere le armi,
c’ era la
diffidenza verso la promessa dei tedeschi per il rimpatrio dei nostri
soldati.
Intanto
giunse, in fuga da Santa Maura (Lefcada),
un gruppetto di soldati, con la notizia che il nostro reparto di
presidio su
quell’ isola era stato catturato e i soldati erano stati
inviati in prigionia.
L’ odio contro i tedeschi crebbe a dismisura e i soldati
italiani cominciarono
a tacciare di tradimento il nostro comando che, ben consapevole del
dislocamento
delle truppe tedesche nell’ isola e nel vicino continente,
continuava a
prendere tempo nell’ intento di evitare uno scontro armato.
Il
13 settembre i tedeschi, senza rispetto per
lo “status quo”, inviarono due pontoni da sbarco
pieni di uomini e mezzi. Gli
zatteroni furono avvistati dalle batterie costiere mentre imboccavano
la rada
di Argostoli, e il ten. Apollonio, il cap. Pampaloni, appoggiati dal
comandante
della marina cap. Mastrangelo, decisero che quell’ azione di
guerra tedesca
andava respinta e aprirono il fuoco con i loro cannoni affondando una
delle due
imbarcazioni e mettendo in fuga la seconda. Questa indipendente
iniziativa di
fuoco sorprese il nostro comando che mandò subito
un
ufficiale alle batterie con l’ ordine di
sospendere immediatamente il fuoco. Arrivato sul luogo egli
inveì veemente
contro il capitano Pampaloni, reo di aver aperto le ostilità
senza il consenso
del comando, rischiando, però, di essere assalito dagli
artiglieri che furono bloccati
da un ordine secco del capitano stesso.
I
tedeschi intanto continuavano a far pervenire
sull’ isola di Cefalonia i loro rinforzi. Essi furono
agevolati dalla decisione
del generale Gandin di abbandonare il presidio del villaggio di
Kardakata che,
occupato da reparti del III° battaglione del 317°
fanteria e II° battaglione
del 17° fanteria, controllavano le strade provenienti dal nord
dell’ isola e
dalla penisola di Paliki. Questa decisione fu presa durante le
trattative del
nostro comando con quello tedesco allo scopo di dimostrare, in buona
fede, la
volontà di evitare uno scontro armato.
Fu
un errore tattico importante, che concesse
ai tedeschi il vantaggio di agire indisturbati in quella zona
dell’ isola,
facendo sbarcare uomini e mezzi nelle baie di Aghios Kiriaki e Mirtos.
Essi inoltre
cominciarono ad essere più insistenti
e minacciosi nelle loro richieste di resa
del comando italiano, il quale continuava a prendere tempo, ponendo
allo stesso
tre opzioni tassative :
a}continuare
la lotta al loro fianco
b}cedere
le armi
c}combattere
contro di loro.
Al
generale Gandin si
presentava la gravissima responsabilità di
una decisione da prendere. Continuare la guerra a fianco dei tedeschi
significava disobbedire agli ordini del governo legittimo. Arrendersi e
consegnare le armi significava venir meno all’ onore militare.
Combattere
contro l’ antico alleato significava
mandare alla morte
12.000 “figli di mamma”.
Egli
era infatti consapevole che non sarebbero
arrivati aiuti dall’ Italia e difficilmente dagli alleati.
Alle
prese con questi
conflitti Gandin convocò i cappellani militari dei vari
reparti
per avere notizie dello stato morale delle truppe ed avere anche un
loro parere
sulla decisione da prendere.
La
risposta dei sacerdoti fu che la decisione
migliore portava alla resa, anche se la truppa era votata alla lotta.
In un
viaggio di trasferimento, da un comando ad un altro, l’ auto
del generale fu
oggetto del lancio di una bomba a mano (per fortuna senza conseguenze)
da parte
di soldati che lo giudicavano traditore perché
interpretavano le sue trattative come
volontà di resa.
A
questo punto il generale Gandin incaricò i
vari comandanti di indire un “referendum” nei loro
reparti per sondare la
volontà degli uomini. La truppa si trovò
così a decidere del proprio destino e
, interrogata sulle tre possibilità, decise per la lotta
contro i tedeschi. I
soldati scelsero di combattere per la propria dignità di
uomini, per la loro
italianità, per l’ illusione di una facile
vittoria e conseguente ritorno alle
proprie case.
Arrivò
poi un dispaccio da Marina Brindisi che
diceva di considerare le truppe tedesche come nemiche e, all’
ultima richiesta
di resa da parte tedesca, il generale rispose che la Divisione Acqui
non
avrebbe ceduto le armi e che, al contrario, se loro non si fossero
arresi, sarebbero
stati cacciati con la forza dall’ isola. Alle ore 14 del 15
settembre ’43
cominciarono ad arrivare dalla vicina Grecia stormi di Stukas che
bombardarono
e spezzonarono tutte le nostre postazioni costiere. Gli attacchi aerei
proseguirono indisturbati per alcuni giorni (l’ aviazione
tedesca ebbe l’ assoluto
dominio dei cieli di Cefalonia) e, data la natura carsica del
territorio, i nostri soldati non poterono
reagire, dovendo restare nascosti, onde evitare di essere scorti dai
piloti ed
essere falciati dalle loro mitragliere. Il nostro esercito ebbe una
reazione
importante, la notte del 15 settembre, contrattaccando e catturando
l’ intero
presidio tedesco di Argostoli.
Un’
altra vittoria importante la ebbero le
batterie della marina di Faraò e le batterie di artiglieria
di Cima Telegrafo quando
respinsero di notte un tentativo di
sbarco del nemico nella baia di Lardigò nei pressi di Capo
S. Teodoro, e affondarono
tre dei cinque mezzi navali, infliggendo parecchie perdite di uomini e
materiali
ai tedeschi.
Ma
ben presto la forza aerea germanica
distrusse tutte le nostre riserve di munizioni, viveri e materiale
bellico; le
fanterie, gli artiglieri, i carabinieri, i marinai combatterono fino
all’
ultimo colpo, tentarono di riconquistare il villaggio di Kardakata, ci
furono
aspre battaglie in tutta la parte nord occidentale dell’
isola.
La
migliore preparazione ed il migliore
armamento dell’ esercito nemico, supplirono alla loro
inferiorità numerica; i
rinforzi tedeschi avevano intanto aggirato le nostre postazioni ed
ebbero la
meglio sui nostri valorosi soldati.
Il
22 settembre il generale Gandin, dopo aver
convocato per l’ ultima volta il consiglio di guerra, chiese
la nostra resa
senza condizioni. Al termine di questi sette giorni di battaglia le
nostre
perdite ammontavano a circa 1300 unità fra ufficiali,
sott’ ufficiali e
soldati. Vista la schiacciante vittoria ottenuta, il comandante della
fanteria
da montagna tedesca, ringraziando i suoi soldati, disse loro:- Miei
prodi le
prossime 48 ore vi appartengono-.
In
quelle 48 ore i soldati della Wehrmatch
rastrellarono e falcidiarono, dopo averli anche umiliati e depredatati
delle
cose più personali, centinaia dei nostri ragazzi che
venivano catturati o che
si erano arresi. Furono massacrati a gruppi
di decine alla
volta, nei campi, sui
bordi delle strade, in mezzo agli ulivi. I loro corpi (prova del reato)
furono
nascosti in cisterne naturali, sepolti dal terriccio delle scarpate
(minate e
fatte saltare per quello scopo), cosparsi di benzina e dati alle
fiamme.
Alcune
cifre del massacro tedesco:
Troianata:
631 trucidati, Francata:461
trucidati, Farsa: 200 trucidati, Kuruklata: 300 trucidati, Santa
Barbara: 36
trucidati, Procopata: 148 trucidati, Kardakata:114 trucidati, San
Teodoro: 136
ufficiali trucidati.
I
teutonici, placata la loro vendetta
rinchiusero gli scampati all’ eccidio nel cortile della
Caserma Mussolini e
nelle prigioni di Argostoli; li lasciarono sotto il caldo sole di
settembre
dando loro poca acqua e pochissimo cibo. Il 24 settembre gli ufficiali
italiani
(circa 180) furono portati nel cortile di una casetta (casetta rossa)
poco
fuori dalla città di Argostoli e, a quattro- otto alla volta
condotti presso
una fossa naturale e fucilati. Le esecuzioni durarono tutta la
mattinata
finchè, stanchi di uccidere, i soldati nemici concessero la
grazia agli ultimi
36 ufficiali rimasti, a condizione che fossero in possesso di tessere
fasciste
o che fossero del Sud Tirolo.
La
notte stessa gli aguzzini obbligarono 17
marinai a raccogliere e caricare sui camion i corpi che erano nella
fossa,
portarli al porto di Argostoli e caricarli su zatteroni. Arrivati al
largo
dell’ isolotto di Vardiani i nostri marinai furono costretti
ad appesantire i
corpi dei loro ufficiali con del filo spinato e a buttarli a mare.
Questi 17
ragazzi furono poi uccisi in quanto testimoni della barbarie.
All’
inizio di ottobre i tedeschi organizzarono
degli imbarchi che
dovevano
portare i prigionieri nei campi di
internamento di mezza Europa. Ci furono diversi imbarchi: navi
stracariche di prigionieri
chiusi nelle stive (circa 800/1200 ogni imbarco). Il primo (il
piroscafo Ardena che ancora giace sul fondo della baia di Argostoli con
i resti del suo carico) incappò nei campi
minati
italiani all’ uscita del golfo di Artgostoli; il secondo e
terzo
(piroscafi Margherita e Maria Marta) affondarono, per gli
attacchi degli alleati, al largo di Patrasso.
In
queste circostanze morirono circa 2500
nostri ragazzi, soprattutto quelli che erano nelle stive. Di quelli che
fortunatamente erano sui ponti, molti si salvarono a nuoto o raccolti
dai
pescherecci greci, per essere poi ricondotti in prigionia.
I
drammatici eventi erano arrivati a termine
nell’ isola di Cefalonia.
La
Divisione Acqui
aveva perso migliaia
di uomini nel lasso di tempo di quindici giorni. Dei fortunati soldati
italiani
che si erano salvati, prima dal massacro, poi dall’
affondamento delle navi,
due terzi furono mandati nei campi di prigionia europei, e un terzo fu
tenuto
prigioniero sull’ isola obbligato al lavoro coatto. Questi
ultimi coordinati
dal tenente Apollonio, formarono il “ raggruppamento banditi
Acqui” e svolsero,
fino all’ estate del 1944 compiti di sabotaggio e
collaborazione con i
partigiani della resistenza greca. Rientrarono in Italia nel novembre
dello
stesso anno su navi inglesi e con l’ onore delle armi.
Fu
l’ unico reparto dell’ esercito italiano,
dei 600.000 che combatterono oltre mare, a rientrare in patria con la
sua
bandiera. Gli altri furono meno fortunati, e , chi
rientrò
presto in patria lo
fece nella primavera del 1945.
CORFU’
Nell’
isola di Corfù, dopo la notizia
dell’avvenuto armistizio, il 9 settembre il comandante di
quel presidio, colonnello
Luigi Lusignani, ricevette l’ordine, dal Comando di Corpo
D’Armata, di cessione
delle armi ai Tedeschi; ordine che egli considerò apocrifo
e, comunque contro
le regole dell’Onor Militare.
Nei
giorni 9, 10, 11 settembre, il comandante,
intraprese negoziati con il Comando tedesco arrivando
all’accordo per lo “Status
Quo” escludendo qualsiasi afflusso di forze tedesche che
venissero a rinforzare
quelle già presenti sull’isola. L’11
settembre giunse, dal Comando Supremo,
l’ordine di considerare i tedeschi nemici e di catturare le
forze tedesche,
riservando loro un trattamento da prigionieri di guerra;
l’esecuzione di
quell’ordine fu rimandata per via dei negoziati in corso. Il
12 settembre alle
ore 16.00, giunse un parlamentare tedesco che intimò la resa
al comando
italiano, in virtù dell’ordine dell’ XI
Armata. L’intimidazione venne
energicamente respinta.
Dopo
una lunga discussione si convenne per il
mantenimento dello “Status Quo” con
l’esplicita condizione scritta che i
reparti tedeschi non dovevano essere rinforzati, che le loro navi non
dovevano
approdare, che i loro aerei non dovevano atterrare; potevano, comunque,
sorvolare l’isola a scopo di transito.
La
mattina del 13 settembre aerei tedeschi
presero a sorvolare l’isola a scopo intimidatorio, eseguendo
voli radenti
lanciarono volantini che invitavano i soldati italiani alla resa.
Pur
avendo l’ordine di non sparare, le
artiglierie situate sulla fortezza veneziana, seguite da altre batterie
in
zona, aprirono d’iniziativa il fuoco abbattendo tre aeroplani
tedeschi.
Nel
frattempo un convoglio di una quindicina di
navi tedesche tentò il primo attacco all’isola.
La
7ª e la 9ª batteria del 33° reggimento
artiglieria e i pezzi contro carro della fanteria aprirono un nutrito e
preciso
fuoco contro le imbarcazioni nemiche, affondandone una e danneggiandone
un’altra.
Di
fronte all’efficace difesa costiera il
convoglio tedesco invertì la rotta. Il
nostro contrattacco proseguì anche sull’isola e i
nostri
soldati, seppur sotto il bombardamento aereo nemico, catturarono tutta
la
guarnigione tedesca (circa 450 uomini). Fallito il tentativo di sbarco,
i
Tedeschi cominciarono un violento bombardamento aereo sulla
città di Corfù e
sul resto dell’isola, la battaglia continuava estenuante per
la completa
mancanza della caccia amica. Intanto, il giorno 16, si apprese che a
Cefalonia
il grosso della “Acqui” aveva iniziato la battaglia
contro i Tedeschi.
I
bombardamenti continuarono nei giorni 18, 19,
20 e 21 mettendo a dura prova la nostra resistenza e il nostro morale.
Nei
giorni 22 e 23, gli aerei cresciuti di
numero, dopo la fine delle ostilità a Cefalonia, portavano
ovunque i loro
attacchi.
Nelle
prime ore del mattino del giorno 24 i
Tedeschi riuscirono a sbarcare nella zona sud-occidentale
dell’isola e
nonostante venissero ostacolati dai nostri soldati riuscirono a
consolidare le
proprie posizioni. Appoggiati dagli Stukas ebbero presto la meglio e
tagliarono
fuori le nostre forze del settore meridionale che persero il contatto
con il
Comando dislocato al centro.
Alle
ore 12.00 i Tedeschi s’impadronivano di un
altro caposaldo dove i fanti del 18° si erano difesi
strenuamente.
I
tedeschi intanto continuavano a sbarcare
rinforzi.
Crollato
tutto il fronte a sud, la difesa
veniva portata verso il nord per un estremo tentativo di resistenza. Il
25
settembre i tedeschi cominciarono, in forze, a premere contro la nuova
linea
difensiva e appoggiati dalla loro formidabile aviazione e sfondarono
anche
quella.
Alle
15.10 l’isola si arrese.
La
repressione dell’antico alleato fu meno violenta,
avendo già avuto sfogo nell’isola di Cefalonia.
Fu
fucilato il Colonnello Lusignani, altri
sedici ufficiali furono imbarcati e si pensa siano stati legati e,
infilati vivi in sacchi di iuta, gettati in
mare; alcuni dei loro corpi furono portati a riva dalla risacca.
In
tutto a Corfù la Divisione
Acqui
perse circa 600 uomini.
I
superstiti seguirono la stessa sorte dei loro
compagni di Cefalonia.
A
poche centinaia di chilometri dalle isole di Cefalonia e
Corfù si trovano
le Termopili, luogo ancora oggi leggendario, per la
resistenza che ivi,
nel 480
a.C.
gli antichi greci opposero all'invasore persiano. Una lapide ricorda
con queste
parole i 300 Spartani che, guidati da Leonida, resistettero
eroicamente, immolandosi
tutti, per rallentare l'avanzata del nemico.
"Straniero,
và a dire ai Lacedemoni che noi siamo qui caduti, per
avere obbedito ai loro ordini"
L'epitaffio
per onorare e ricordare degnamente le migliaia di caduti della DA
potrebbe essere invece questo: "Straniero
và a dire agli
Italiani che noi siamo qui caduti perché, nella
confusione degli ordini,
obbedimmo all'imperativo categorico dell'onore e della patria" .
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