La storia della Divisione "Acqui"

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La Storia


INTRODUZIONE STORICA

La sciagurata campagna di aggressione alla Grecia (inizio 28 Ottobre 1940) condusse un esercito penosamente impreparato ad impantanarsi per mesi in Albania.Quando gli italiani arrivarono in Epiro (Aprile 1941) trovarono la Grecia già occupata dalle truppe tedesche, partite poche settimane prima dalla Romania.La Divisione Acqui , già impegnata nel '40 -'41 sul fronte occidentale e poi in Albania ed Epiro, venne destinata alla fine del '41 a presidiare le isole ioniche.

Gli effettivi complessivi della Divisione Acqui, più i reparti aggregati, erano di oltre 13.000 uomini, 11.500 dei quali a Cefalonia, 800 a Corfù, 400 a Zante, 70 ad Itaca. Ad essi vanno aggiunti i circa 4.000 soldati provenienti da Santi Quaranta, che sbarcarono a Corfù il 13 settembre 1943, al comando del Col. Elio Bettini, che aveva preso l'eroica decisione di rafforzare la guarnigione di Corfù, per resistere al tentativo di sbarco tedesco.

La Divisione Acqui al comando del Generale Luigi Mazzini, dall’ aprile del 1941 occupava le isole Jonie dell’ Eptaneso (arcipelago di sette isole del mar Jonio).
Essa era distribuita principalmente nelle isole di Corfù , Cefalonia e Zacinto; piccoli reparti erano inoltre distaccati nelle isole di Santa Maura (Leucade) , Paxos e Itaca.
Il presidio dell’ Eptaneso , vista la sua posizione geografica a ridosso della costa Greco-Albanese e a poche miglia dalle coste italiane, aveva come fine il controllo del canale di Otranto e del porto di Patrasso, per timore che le forze alleate potessero attaccare quella zona aprendosi un varco e, arrivare al cuore della Germania attraverso la Yugoslavia e l’ Austria.
L’ occupazione delle isole Ioniche fu molto pacifica:  fino al settembre 1943 non si verificarono episodi di violenza armata, vi furono solo episodi tesi al controllo della resistenza greca che culminarono con l’ arresto e la carcerazione di alcuni ribelli che facevano parte del movimento partigiano delle isole.
La popolazione civile, pur considerandoli nemici, cominciò presto a convivere in modo amichevole con i soldati italiani, i quali, visto la fame e la miseria che regnavano in quel periodo, divisero spesso quel po’ che avevano da mangiare soprattutto con i bambini delle famiglie greche.
A conferma di questo tipo di convivenza si verificarono, durante l’ occupazione, più di duecento matrimoni fra i nostri soldati e le donne isolane.
In Italia nella tarda primavera del 1943 il regime fascista cominciava a vacillare e, visto l’ andamento fallimentare della guerra, iniziava a perdere il consenso popolare. Una parte dello stato  maggiore dell’ esercito stava  tramando allo scopo di destituire Mussolini tramite un colpo di mano.
I tedeschi che erano tutt’ altro che un esercito impreparato, avevano capito che l’ Italia non avrebbe potuto continuare la guerra ancora per molto e seguendo questa considerazione, i nostri alleati, predisposero un piano denominato “Alarico” (in precedenza Acse), il quale prevedeva, in caso di resa del nostro governo, di affiancare le truppe italiane nei presidi di loro competenza allo scopo di recuperare le aliquote disposte a continuare la guerra al loro fianco, neutralizzando, disarmando e inviando nei campi di prigionia il resto.
Fu così, che dopo la destituzione di Mussolini da parte del Re e la conseguente caduta del Fascismo, avvenuta il 25 luglio 1943, il presidio delle isole Ionie, fino ad allora di solo stampo italiano, diventò un presidio misto con l’ arrivo, dal mese di agosto di contingenti di truppe tedesche.
Dal 20 di giugno il comando della divisione Acqui era passato al generale Antonio Gandin che dalla fine del 1940 aveva diretto l’ ufficio operazioni del Comando supremo ed era ben consapevole del dispiegamento delle forze tedesche in tutta Europa e soprattutto nei Balcani; era inoltre insignito, oltre alle altre decorazioni, della croce di ferro tedesca di I classe.
 A Cefalonia i tedeschi si stabilirono nella parte occidentale dell’ isola e precisamente nella penisola di Paliki;  installarono il loro quartier generale nella cittadina di Lixuri e in quella zona rimasero solo due nostre batterie di artiglieria, precisamente a Chavriata e San Giorgio. Il resto del nostro contingente militare continuava ad occupare la parte orientale dell’ isola con il proprio Quartier Generale nella città di Argostoli che era anche la capitale di Cefalonia. I rapporti tra i nostri soldati e quelli tedeschi erano pacifici anche se non del tutto sereni e amichevoli. Questo stato di cose proseguì fino al mese di settembre quando, il giorno 8, Badoglio pronunciò l’ armistizio. 


"Il governo italiano, riconosciuta l’ impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’ intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto l’ armistizio al generale Eisenhower, Comandante in Capo delle forze alleate Anglo-Americane. La richiesta è stata accolta. Conseguen-temente ogni atto di ostilità contro le forze anglo americane dovrà cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza."

 
A Cefalonia questa notizia arrivò improvvisa e inaspettata tramite radio alle ore 19 dell’ 8 settembre 1943 cogliendo tutti di sorpresa. Subito vi furono esplosioni di gioia da parte dei soldati italiani, della popolazione civile greca e dei soldati tedeschi. In tutta l’ isola si sentivano suonare le campane e si udirono colpi di fucile sparati in aria. Per questa gente la guerra era finita e prendeva corpo la speranza di un imminente ritorno a casa. Lo stesso entusiasmo non regnava però negli uffici del comando di divisione e nell’ animo degli ufficiali dei vari reparti i quali, non avendo istruzioni precise dal governo legittimo, si chiedevano già quale sarebbe stata la reazione tedesca.
Nell’ isola in quel momento c’ erano circa 12.500 soldati italiani e circa 2.000 soldati tedeschi. Il 9 settembre arrivò un cifrato dal comando di corpo d’ armata con sede a Gianina, in Grecia, che ordinava la cessione ai tedeschi di tutte le armi collettive ma non quelle individuali. Questo cifrato creò dubbi sulla sua autenticità. Come avrebbe potuto la Divisione difendersi da eventuali attacchi di altra provenienza se si fossero cedute le armi? A chi bisognava ubbidire? Al governo legittimo o al comando di corpo d’ armata? Si pensò inoltre che il comando di Gianina fosse già caduto in mano tedesca e che l’ ordine fosse stato inviato sotto la minaccia delle armi. Il 10 settembre il ten. Col. Hanse Barge si presentò al comando italiano a nome del comando di divisione tedesco pretendendo la completa cessione delle armi promettendo in cambio il pronto rimpatrio della Acqui. Questa cessione avrebbe dovuto avvenire nella piazza principale di Argostoli alla presenza della popolazione greca.
Il generale Gandin convocò a rapporto tutti i comandanti di reggimento e , in questo primo consiglio di guerra prevalse il parere di cedere le armi collettive ma non quelle individuali.
Nel frattempo la resistenza greca cominciò a fare propaganda di insurrezione contro il soldato tedesco fra le truppe italiane. I partigiani greci contattarono alcuni ufficiali minori italiani chiedendo armi e munizioni in cambio di una fattiva collaborazione in caso di scontro armato.
Visto il rapporto di mezzi e uomini largamente favorevole alle forze italiane i soldati, guidati da alcuni ufficiali che non volevano la cessione delle armi, pensarono che attaccando subito i tedeschi si poteva giungere a una rapida vittoria in attesa degli alleati che erano già sbarcati in Sicilia. Le trattative del generale Gandin con il comando tedesco intanto continuavano; fra i due comandi si decise per lo “status quo”: gli italiani non avrebbero intrapreso azioni di guerra e i tedeschi non dovevano far arrivare rinforzi dal vicino continente. Il nostro generale affermò che ogni movimento di uomini e mezzi sarebbe stato interpretato come azione di guerra.
Le tensioni fra soldati italiani e tedeschi intanto crescevano; una nostra batteria bloccò un contingente, sulla rotabile Kardacata-Argostoli, che tentava di raggiungere la città per rinforzare il presidio tedesco  ivi esistente. I tedeschi nel frattempo avevano catturato le nostre batterie che erano nella penisola di Paliki. Nella nostra truppa fomentava il dissenso contro l’ intenzione di cedere le armi, c’ era la diffidenza verso la promessa dei tedeschi per il rimpatrio dei nostri soldati.
Intanto giunse, in fuga da Santa Maura (Lefcada), un gruppetto di soldati, con la notizia che il nostro reparto di presidio su quell’ isola era stato catturato e i soldati erano stati inviati in prigionia. L’ odio contro i tedeschi crebbe a dismisura e i soldati italiani cominciarono a tacciare di tradimento il nostro comando che, ben consapevole del dislocamento delle truppe tedesche nell’ isola e nel vicino continente, continuava a prendere tempo nell’ intento di evitare uno scontro armato.
Il 13 settembre i tedeschi, senza rispetto per lo “status quo”, inviarono due pontoni da sbarco pieni di uomini e mezzi. Gli zatteroni furono avvistati dalle batterie costiere mentre imboccavano la rada di Argostoli, e il ten. Apollonio, il cap. Pampaloni, appoggiati dal comandante della marina cap. Mastrangelo, decisero che quell’ azione di guerra tedesca andava respinta e aprirono il fuoco con i loro cannoni affondando una delle due imbarcazioni e mettendo in fuga la seconda. Questa indipendente iniziativa di fuoco sorprese il nostro comando che mandò subito un ufficiale alle batterie con l’ ordine di sospendere immediatamente il fuoco. Arrivato sul luogo egli inveì veemente contro il capitano Pampaloni, reo di aver aperto le ostilità senza il consenso del comando, rischiando, però, di essere assalito dagli artiglieri che furono bloccati da un ordine secco del capitano stesso.
I tedeschi intanto continuavano a far pervenire sull’ isola di Cefalonia i loro rinforzi. Essi furono agevolati dalla decisione del generale Gandin di abbandonare il presidio del villaggio di Kardakata che, occupato da reparti del III° battaglione del 317° fanteria e II° battaglione del 17° fanteria, controllavano le strade provenienti dal nord dell’ isola e dalla penisola di Paliki. Questa decisione fu presa durante le trattative del nostro comando con quello tedesco allo scopo di dimostrare, in buona fede, la volontà di evitare uno scontro armato.
Fu un errore tattico importante, che concesse ai tedeschi il vantaggio di agire indisturbati in quella zona dell’ isola, facendo sbarcare uomini e mezzi nelle baie di Aghios Kiriaki e Mirtos. Essi inoltre cominciarono ad essere più insistenti e minacciosi nelle loro richieste di resa del comando italiano, il quale continuava a prendere tempo, ponendo allo stesso tre opzioni tassative :
 a}continuare la lotta al loro fianco
 b}cedere le armi
 c}combattere contro di loro.
Al generale Gandin  si presentava la gravissima responsabilità di una decisione da prendere. Continuare la guerra a fianco dei tedeschi significava disobbedire agli ordini del governo legittimo. Arrendersi e consegnare le armi significava venir meno all’ onore militare.
Combattere contro l’ antico alleato significava mandare alla morte 12.000 “figli di mamma”.
Egli era infatti consapevole che non sarebbero arrivati aiuti dall’ Italia e difficilmente dagli alleati.
Alle prese con  questi conflitti Gandin convocò i cappellani militari dei vari reparti per avere notizie dello stato morale delle truppe ed avere anche un loro parere sulla decisione da prendere.
La risposta dei sacerdoti fu che la decisione migliore portava alla resa, anche se la truppa era votata alla lotta. In un viaggio di trasferimento, da un comando ad un altro, l’ auto del generale fu oggetto del lancio di una bomba a mano (per fortuna senza conseguenze) da parte di soldati che lo giudicavano traditore  perché interpretavano le sue trattative come volontà di resa.
A questo punto il generale Gandin incaricò i vari comandanti di indire un “referendum” nei loro reparti per sondare la volontà degli uomini. La truppa si trovò così a decidere del proprio destino e , interrogata sulle tre possibilità, decise per la lotta contro i tedeschi. I soldati scelsero di combattere per la propria dignità di uomini, per la loro italianità, per l’ illusione di una facile vittoria e conseguente ritorno alle proprie case.
Arrivò poi un dispaccio da Marina Brindisi che diceva di considerare le truppe tedesche come nemiche e, all’ ultima richiesta di resa da parte tedesca, il generale rispose che la Divisione Acqui non avrebbe ceduto le armi e che, al contrario, se loro non si fossero arresi, sarebbero stati cacciati con la forza dall’ isola. Alle ore 14 del 15 settembre ’43 cominciarono ad arrivare dalla vicina Grecia stormi di Stukas che bombardarono e spezzonarono tutte le nostre postazioni costiere. Gli attacchi aerei proseguirono indisturbati per alcuni giorni (l’ aviazione tedesca ebbe l’ assoluto dominio dei cieli di Cefalonia) e, data la natura carsica del territorio, i nostri soldati non poterono reagire, dovendo restare nascosti, onde evitare di essere scorti dai piloti ed essere falciati dalle loro mitragliere. Il nostro esercito ebbe una reazione importante, la notte del 15 settembre, contrattaccando e catturando l’ intero presidio tedesco di Argostoli.
Un’ altra vittoria importante la ebbero le batterie della marina di Faraò e le batterie di artiglieria di Cima Telegrafo  quando respinsero di notte un tentativo di sbarco del nemico nella baia di Lardigò nei pressi di Capo S. Teodoro, e affondarono tre dei cinque mezzi navali, infliggendo parecchie perdite di uomini e materiali ai tedeschi.
Ma ben presto la forza aerea germanica distrusse tutte le nostre riserve di munizioni, viveri e materiale bellico; le fanterie, gli artiglieri, i carabinieri, i marinai combatterono fino all’ ultimo colpo, tentarono di riconquistare il villaggio di Kardakata, ci furono aspre battaglie in tutta la parte nord occidentale dell’ isola.
La migliore preparazione ed il migliore armamento dell’ esercito nemico, supplirono alla loro inferiorità numerica; i rinforzi tedeschi avevano intanto aggirato le nostre postazioni ed ebbero la meglio sui nostri valorosi soldati.
Il 22 settembre il generale Gandin, dopo aver convocato per l’ ultima volta il consiglio di guerra, chiese la nostra resa senza condizioni. Al termine di questi sette giorni di battaglia le nostre perdite ammontavano a circa 1300 unità fra ufficiali, sott’ ufficiali e soldati. Vista la schiacciante vittoria ottenuta, il comandante della fanteria da montagna tedesca, ringraziando i suoi soldati, disse loro:- Miei prodi le prossime 48 ore vi appartengono-.
In quelle 48 ore i soldati della Wehrmatch rastrellarono e falcidiarono, dopo averli anche umiliati e depredatati delle cose più personali, centinaia dei nostri ragazzi che venivano catturati o che si erano arresi. Furono massacrati a gruppi di decine  alla volta, nei campi, sui bordi delle strade, in mezzo agli ulivi. I loro corpi (prova del reato) furono nascosti in cisterne naturali, sepolti dal terriccio delle scarpate (minate e fatte saltare per quello scopo), cosparsi di benzina e dati alle fiamme.
Alcune cifre del massacro tedesco:
Troianata: 631 trucidati, Francata:461 trucidati, Farsa: 200 trucidati, Kuruklata: 300 trucidati, Santa Barbara: 36 trucidati, Procopata: 148 trucidati, Kardakata:114 trucidati, San Teodoro: 136 ufficiali trucidati.
I teutonici, placata la loro vendetta rinchiusero gli scampati all’ eccidio nel cortile della Caserma Mussolini e nelle prigioni di Argostoli; li lasciarono sotto il caldo sole di settembre dando loro poca acqua e pochissimo cibo. Il 24 settembre gli ufficiali italiani (circa 180) furono portati nel cortile di una casetta (casetta rossa) poco fuori dalla città di Argostoli e, a quattro- otto alla volta condotti presso una fossa naturale e fucilati. Le esecuzioni durarono tutta la mattinata finchè, stanchi di uccidere, i soldati nemici concessero la grazia agli ultimi 36 ufficiali rimasti, a condizione che fossero in possesso di tessere fasciste o che fossero del Sud Tirolo.
La notte stessa gli aguzzini obbligarono 17 marinai a raccogliere e caricare sui camion i corpi che erano nella fossa, portarli al porto di Argostoli e caricarli su zatteroni. Arrivati al largo dell’ isolotto di Vardiani i nostri marinai furono costretti ad appesantire i corpi dei loro ufficiali con del filo spinato e a buttarli a mare. Questi 17 ragazzi furono poi uccisi in quanto testimoni della barbarie.
All’ inizio di ottobre i tedeschi organizzarono degli imbarchi che
dovevano portare i prigionieri nei campi di internamento di mezza Europa. Ci furono diversi imbarchi: navi stracariche di prigionieri chiusi nelle stive (circa 800/1200 ogni imbarco). Il primo (il piroscafo Ardena che ancora giace sul fondo della baia di Argostoli con i resti del suo carico) incappò nei campi minati italiani all’ uscita del golfo di Artgostoli; il secondo e terzo (piroscafi Margherita  e Maria Marta) affondarono, per gli attacchi degli alleati, al largo di Patrasso.
In queste circostanze morirono circa 2500 nostri ragazzi, soprattutto quelli che erano nelle stive. Di quelli che fortunatamente erano sui ponti, molti si salvarono a nuoto o raccolti dai pescherecci greci, per essere poi ricondotti in prigionia.
I drammatici eventi erano arrivati a termine nell’ isola di Cefalonia.
La Divisione Acqui aveva perso migliaia di uomini nel lasso di tempo di quindici giorni. Dei fortunati soldati italiani che si erano salvati, prima dal massacro, poi dall’ affondamento delle navi, due terzi furono mandati nei campi di prigionia europei, e un terzo fu tenuto prigioniero sull’ isola obbligato al lavoro coatto. Questi ultimi coordinati dal tenente Apollonio, formarono il “ raggruppamento banditi Acqui” e svolsero, fino all’ estate del 1944 compiti di sabotaggio e collaborazione con i partigiani della resistenza greca. Rientrarono in Italia nel novembre dello stesso anno su navi inglesi e con l’ onore delle armi.
Fu l’ unico reparto dell’ esercito italiano, dei 600.000 che combatterono oltre mare, a rientrare in patria con la sua bandiera. Gli altri furono meno fortunati, e , chi rientrò presto in patria lo fece nella primavera del 1945.


CORFU’
 
Nell’ isola di Corfù, dopo la notizia dell’avvenuto armistizio, il 9 settembre il comandante di quel presidio, colonnello Luigi Lusignani, ricevette l’ordine, dal Comando di Corpo D’Armata, di cessione delle armi ai Tedeschi; ordine che egli considerò apocrifo e, comunque contro le regole dell’Onor Militare.
Nei giorni 9, 10, 11 settembre, il comandante, intraprese negoziati con il Comando tedesco arrivando all’accordo per lo “Status Quo” escludendo qualsiasi afflusso di forze tedesche che venissero a rinforzare quelle già presenti sull’isola. L’11 settembre giunse, dal Comando Supremo, l’ordine di considerare i tedeschi nemici e di catturare le forze tedesche, riservando loro un trattamento da prigionieri di guerra; l’esecuzione di quell’ordine fu rimandata per via dei negoziati in corso. Il 12 settembre alle ore 16.00, giunse un parlamentare tedesco che intimò la resa al comando italiano, in virtù dell’ordine dell’ XI Armata. L’intimidazione venne energicamente respinta.
Dopo una lunga discussione si convenne per il mantenimento dello “Status Quo” con l’esplicita condizione scritta che i reparti tedeschi non dovevano essere rinforzati, che le loro navi non dovevano approdare, che i loro aerei non dovevano atterrare; potevano, comunque, sorvolare l’isola a scopo di transito.
La mattina del 13 settembre aerei tedeschi presero a sorvolare l’isola a scopo intimidatorio, eseguendo voli radenti lanciarono volantini che invitavano i soldati italiani alla resa.
Pur avendo l’ordine di non sparare, le artiglierie situate sulla fortezza veneziana, seguite da altre batterie in zona, aprirono d’iniziativa il fuoco abbattendo tre aeroplani tedeschi.
Nel frattempo un convoglio di una quindicina di navi tedesche tentò il primo attacco all’isola.
La 7ª e la 9ª batteria del 33° reggimento artiglieria e i pezzi contro carro della fanteria aprirono un nutrito e preciso fuoco contro le imbarcazioni nemiche, affondandone una e danneggiandone un’altra.
Di fronte all’efficace difesa costiera il convoglio tedesco invertì la rotta. Il nostro contrattacco proseguì anche sull’isola e i nostri soldati, seppur sotto il bombardamento aereo nemico, catturarono tutta la guarnigione tedesca (circa 450 uomini). Fallito il tentativo di sbarco, i Tedeschi cominciarono un violento bombardamento aereo sulla città di Corfù e sul resto dell’isola, la battaglia continuava estenuante per la completa mancanza della caccia amica. Intanto, il giorno 16, si apprese che a Cefalonia il grosso della “Acqui” aveva iniziato la battaglia contro i Tedeschi.
I bombardamenti continuarono nei giorni 18, 19, 20 e 21 mettendo a dura prova la nostra resistenza e il nostro morale.
Nei giorni 22 e 23, gli aerei cresciuti di numero, dopo la fine delle ostilità a Cefalonia, portavano ovunque i loro attacchi.
Nelle prime ore del mattino del giorno 24 i Tedeschi riuscirono a sbarcare nella zona sud-occidentale dell’isola e nonostante venissero ostacolati dai nostri soldati riuscirono a consolidare le proprie posizioni. Appoggiati dagli Stukas ebbero presto la meglio e tagliarono fuori le nostre forze del settore meridionale che persero il contatto con il Comando dislocato al centro.
Alle ore 12.00 i Tedeschi s’impadronivano di un altro caposaldo dove i fanti del 18° si erano difesi strenuamente.
I tedeschi intanto continuavano a sbarcare rinforzi.
Crollato tutto il fronte a sud, la difesa veniva portata verso il nord per un estremo tentativo di resistenza. Il 25 settembre i tedeschi cominciarono, in forze, a premere contro la nuova linea difensiva e appoggiati dalla loro formidabile aviazione e sfondarono anche quella.
Alle 15.10 l’isola si arrese.
La repressione dell’antico alleato fu meno violenta, avendo già avuto sfogo nell’isola di Cefalonia.
Fu fucilato il Colonnello Lusignani, altri sedici ufficiali furono imbarcati e si pensa siano stati legati e, infilati vivi in sacchi di iuta, gettati in mare; alcuni dei loro corpi furono portati a riva dalla risacca.
In tutto a Corfù la Divisione Acqui perse circa 600 uomini.
I superstiti seguirono la stessa sorte dei loro compagni di Cefalonia.

A poche centinaia di chilometri dalle isole di Cefalonia e Corfù si trovano le Termopili,  luogo ancora oggi leggendario, per la resistenza che ivi, nel 480 a.C. gli antichi greci opposero all'invasore persiano. Una lapide ricorda con queste parole i 300 Spartani che, guidati da Leonida, resistettero eroicamente, immolandosi tutti, per rallentare l'avanzata del nemico.

"Straniero, và a dire ai Lacedemoni che noi siamo qui caduti, per avere obbedito ai loro ordini"

L'epitaffio per onorare e ricordare degnamente le migliaia di caduti della DA potrebbe essere invece questo:   "Straniero và a dire agli Italiani che noi siamo qui caduti  perché, nella confusione degli ordini, obbedimmo all'imperativo categorico dell'onore e della patria" .