TESTIMONIANZA
DI LEONARDO MASSARO
Sono
nato a Cassano da Francesco e Maria Antonia Giustino il 26 dicembre
1922, ma mi hanno registrato il 4 gennaio del 1923. Quando è
scoppiata la guerra ero poco più che sedicenne, ma nel
settembre
del 1942 fui chiamato alle armi. Dapprima feci il Car a Bitonto e poi
verso dicembre fui inviato a Caserta presso il 2° Battaglione
di
Marcia. Restai in Campania fino al luglio del 1943.
Proprio
il giorno
della caduta del fascismo, il 25 luglio, partimmo da Caserta via terra
per un lungo viaggio durato 35 giorni, in treno, attraverso il nord
Italia, la Jugoslavia (dove fummo attaccati due volte dai partigiani di
Tito), poi l’Albania, fino a raggiungere Atene dove restammo
un
paio di giorni. Poi proseguimmo con un trenino attraversando il canale
di Corinto e infine arrivammo a Patrasso. Qui ci imbarcarono per
Cefalonia dove giungemmo il 29 agosto, pochi giorni prima della firma
dell’armistizio.
Facevo parte
del Reparto
Sussistenza di Bari (9ª squadra panettieri), aggregato alla
Divisione Acqui, e mi occupavo di provvedere alla cottura del pane.
Dopo aver
appreso la
notizia dell’armistizio, ricordo che ci furono diverse
riunioni
fra il comandante della divisione, generale Gandin, e gli ufficiali e
sottufficiali per decidere il tipo di condotta da intraprendere.
All’inizio
il
generale ebbe dei colloqui con i tedeschi, presentandosi presso il loro
comando. Seppi che aveva fatto posizionare precauzionalmente i pezzi di
artiglieria con le bocche da fuoco in quella direzione, con
l’ordine di fare fuoco se egli non fosse rientrato entro una
data
ora.
Fu indetto
una specie di
referendum fra ufficiali e soldati e la maggior parte decise di non
consegnare le armi ma di combattere contro i tedeschi, anche
perché l’alternativa era quella di finire in un
campo di
concentramento come prigionieri.
Noi
contavamo soprattutto sulla nostra superiorità numerica: i
tedeschi erano credo poco meno di 2.000 uomini, mentre noi eravamo
12.000 e anche discretamente armati. Inizialmente i tedeschi,
concentrati a Lixuri nella penisola di Paliki, praticamente potevano
considerarsi quasi nostri prigionieri, avendo noi italiani il controllo
del resto dell’isola e soprattutto del capoluogo Argostoli.
Da parte
nostra fu
sottovalutato però un fattore importante che
risultò
decisivo per l’esito della battaglia, e cioè
l’utilizzo dell’aviazione da parte degli ex alleati
che ora
erano diventati nostri nemici. Ci bombardarono e mitragliarono
ininterrottamente, notte e giorno, volando anche a bassa quota e
illuminando il cielo con i bengala.
Nel frattempo
erano
sbarcati mezzi navali con i rifornimenti e le munizioni per i tedeschi,
mentre avevamo saputo che una nave italiana stava venendo in nostro
soccorso, ma fu bloccata e fatta tornare indietro dagli inglesi.
Dopo quattro
o cinque
giorni di inferno, mi trovavo con circa altri 50 soldati nei pressi di
Argostoli lungo la strada che porta a Sami, quando fummo presi
prigionieri verso il tramonto. Ci ammucchiarono tutti insieme per
fucilarci. Avevamo saputo di altre esecuzioni di massa e ora toccava a
noi.
Un attimo
prima che
partissero le raffiche di mitra, istintivamente caddi per terra senza
ricordarne ancora oggi il motivo (se fingendo di essere stato colpito o
perché svenuto dalla paura), restando sul terreno accanto ai
corpi dei miei commilitoni.
Rimasi
immobile a lungo perché passavano a dare il colpo di grazia
a
chi ancora si muoveva. Sentivo qualche colpo di arma da fuoco ma
continuai a non muovermi finché non ebbi la sicurezza che se
ne
fossero andati. Mi sollevai da terra e mi resi conto che altri tre
soldati si erano salvati come me. Nel frattempo era diventato buio.
Dopo esserci
allontanati,
ricordo che bussammo a una casa di greci dalla quale venne fuori un
vecchietto che parlava un po’ di italiano. Ci disse che non
poteva ospitarci perché i tedeschi fucilavano anche quelli
che
ci aiutavano. Ci indicò lì vicino una cava di
pietra dove
poterci nascondere e ogni tanto veniva a trovarci portandoci quel
po’ di cibo, scarso anche per loro, che riusciva a
recuperare.
Dopo qualche
giorno ci
disse che aveva saputo da una prostituta italiana, che si intratteneva
con i tedeschi, che le fucilazioni erano state sospese.
Dopo qualche
tentennamento, decidemmo di uscire allo scoperto, disarmati ma con la
nostra divisa, finché non incontrammo una pattuglia tedesca
che
ci fece prigionieri e ci condusse ad Argostoli in un carcere
improvvisato di fianco alla ex Caserma Mussolini, dove erano rinchiusi
molte centinaia di soldati come noi. Ci tennero a digiuno per qualche
giorno, dandoci solo dell’acqua da bere.
Lì
venimmo a
conoscenza della fucilazione degli ufficiali alla Casetta Rossa, dello
sterminio degli altri soldati, prima fucilati e poi bruciati e buttati
in mare.
Ci fu uno tra
noi che,
pensando di aver un trattamento migliore, disse di essere un ufficiale
e chiese di essere trasferito con i suoi pari grado. Purtroppo per lui,
però, ciò significò la sua condanna a
morte: dai
colpi che sentimmo dopo che fu portato via, intuimmo la sua esecuzione
nel cortile del carcere. Il fatto ci colpì tantissimo e,
naturalmente, nessuno di noi si sognò si spacciarsi per
ufficiale, né tantomeno rivelarono di esserlo quelli fra di
noi
che lo erano veramente.
A
un certo punto i tedeschi cominciarono a imbarcarci su delle piccole
navi, alcune delle quali però, forse per imperizia dei
manovratori, furono affondate dalle mine da noi collocate nello Jonio,
che causarono altre morti di soldati italiani che erano stipati nelle
stive. Ce lo riferì uno di loro scampato alla tragedia e
salvatosi a nuoto.
Quando
toccò a noi,
ero in compagnia di uno di Andria che suggerì di fingerci
feriti
per rimanere sul ponte, da dove in caso di pericolo avremmo potuto
buttarci in mare e cercare la salvezza a nuoto. Ricordo che
individuammo due cucinieri tedeschi che avevano i salvagente e restammo
lì vicino a loro.
Il soldato di
Andria mi
disse: «Massaro, se la nave affonda, dobbiamo far fuori quei
due
e prendere i loro salvagente, solo così possiamo
salvarci».
Per fortuna
non fu
necessario perché l’imbarcazione passò
indenne e
così ci portarono prima a Patrasso, dove sbarcammo per
essere
poi portati in un campo di prigionia vicino ad Atene. Ci davano da
mangiare una pagnotta di pane da dividere in quattro e una brodaglia di
acqua calda.
Il giorno
dopo ci
trasferirono a Salonicco dove ci fecero salire su dei vagoni merce
chiusi dall’esterno e partimmo per Belgrado. Il viaggio
durò un paio giorni, sempre chiusi nei carri senza cibo. Per
fare i nostri bisogni riuscimmo a scardinare un’asse dal
pavimento in un angolo del vagone, ma eravamo così stipati
che
ci si vergognava di essere osservati.
Nel
campo di concentramento di Belgrado c’erano più di
diecimila soldati italiani internati. Noi di Cefalonia, che eravamo
considerati ribelli rispetto agli altri che si erano invece consegnati
spontaneamente, fummo collocati in una baracca separata da un doppio
filo spinato.
Ciò
nonostante riconobbi Mengucce Volpecedde (Domenico Giorgio, ndr), un
altro cassanese che si trovava lì, internato dopo
l’8
settembre. Da lontano feci il fischio di riconoscimento che si usa qui
a Cassano e notai che lui si girò dalla mia parte. Gli feci
segno con le mani di avvicinarsi.
Non potevamo
parlare
liberamente perché osservati dalle sentinelle. Riuscimmo a
farlo
stando vicini rivolgendoci le spalle, separati dal filo spinato. E
così ognuno raccontò all’altro le
proprie
disavventure.
Un giorno lui
mi fece un
cenno, si avvicinò e mi disse: «Narducce, domani
mattina
ci portano a lavorare, lontano, non so dove».
Mi
spiegò che li
avrebbero caricati su dei camion e portati fuori dal campo in una
località sconosciuta e distante parecchi chilometri. A quel
punto pensai che se mi fossi unito a loro poteva essere una buona
occasione per scappare.
Cominciai a
fare u pare e
dispere, ma in quelle condizioni il cervello non ti funziona
più
e, nonostante la pericolosità della mia scelta, decisi di
rischiare. Mi accordai con Mngucce di trovarci a una certa ora in un
punto del campo, non conoscendo la posizione della sua baracca. Poi
andai a dormire.
Alle tre di
notte, riuscii
a passare sotto il reticolato e mi incamminai con Volpcedde verso il
suo alloggio dove si trovava anche un altro cassanese, Peppino De Vito.
Alle cinque
cominciarono a
farci salire sui camion. La mia fortuna fu che non ci avevano ancora
schedati e quindi mi confusi con gli altri, salendo assieme a un gruppo
che comprendeva i miei due compaesani.
Ci portarono
in un campo
di lavoro quasi ai confini della Jugoslavia, verso la Romania, in una
località chiamata Požarevac , vicino
al Danubio. Il nostro
lavoro consisteva nella sistemazione di strade e ferrovie.
Ci davano la
solita
pagnotta al giorno da dividere in quattro. Ci toccava tirare a sorte,
au tuecche, pe capà un pezzette cchiù gruesse.
Un giorno mi
ricordo che
Volpicedde con la scusa di andare nel bosco a fare i propri bisogni, si
allontanò per chiedere altro cibo alle famiglie serbe della
zona, lasciandomi la sua targhetta con il numero di matricola.
Nue
fateghemme sope a la
strate. Allore me mettibbe a nu quarte e passò u controlle,
poe
me levibbe u cappidde, me mettibbe cude de nu alpine e mi scibbe a
mette all’ualte quarte de la strate e chensegnibbe la
matrichele
de Volpcedde in modo tale che risultava presente anche lui.
Sckitte ca
cheda dije nan
se retrave. Eravamo ormai rientrati al campo già da qualche
ora,
quando lo sentimmo arrivare un po’ brillo che cantava. Per
fortuna le sentinelle non si accorsero di niente.
Ricordo
anche, come unico
momento di allegria, la Pasqua del ’44, quando io e un
napoletano
chiedemmo al comandante del campo di poterci esibire in alcune scenette
e cantare alcune canzoni. Ce lo concesse e lui stesso si
divertì
assieme agli altri soldati e prigionieri. Tuttavia non ricevemmo nessun
trattamento speciale o premio per questa nostra esibizione e dal giorno
dopo tutto rientrò nella solita vita da campo.
Siamo rimasti
lì un anno, fino alla fine di settembre del ’44.
Volpecedde fu trasferito da un’altra parte, mentre De Vito
rimase
lì con me. Poi arrivarono i partigiani di Tito a liberarci e
salvarci e ci consegnarono ai russi, con i quali restammo per circa una
settimana e fummo trattati umanamente, mangiavamo insieme a loro e
avevamo una certa libertà di movimento. Dopo la liberazione
di
Belgrado i russi ci lasciarono con i partigiani slavi che ci presero
con loro, ci armarono e così ci unimmo alla resistenza
jugoslava
entrando a far parte di una divisione composta interamente da italiani
con un nostro comandante.
Durante
questa esperienza, molto più dura e pericolosa di quella del
campo di prigionia, incontrai un altro cassanese, Peppine Samuele
(Giuseppe Turitto, ndr).
Abbiamo
combattuto contro
i tedeschi su quel fronte, non più sabotaggi, ma una vera e
propria guerra. Partimmo da Belgrado dove c’erano anche i
russi.
I tedeschi a un certo punto si fermarono per rinforzare le loro
posizioni, indietreggiando di 40 km. Così noi avanzammo
verso
Sarajevo dove però avemmo una batosta, subendo molte
perdite. La
città era in una posizione strategica, punto obbligato di
passaggio per le truppe tedesche che si ritiravano dal fronte
greco-albanese. Conquistarla significava impedirne il ricongiungimento
con quelle dislocate in Jugoslavia.
Ricordo
che ci
furono migliaia di morti da entrambe le parti. Per seppellire i nostri
si scavarono fosse comuni profonde tre metri e lunghe una cinquantina.
Con
ostinazione riuscimmo
a respingere i tedeschi fino in Croazia, dove un giorno mentre mi
riposavo in un giardinetto appoggiato ad un albero, a un certo punto
sentii un forte rumore che mi fece sobbalzare. E ci ijere? Volpcedde!
Mi fece piacere rivederlo, anche se fu solo per un attimo. Era assieme
a un partigiano jugoslavo, portavano una barella che aveva fatto cadere
a terra quando mi aveva visto, era quello il rumore che mi aveva
spaventato. Si occupava del trasporto dei feriti dal fronte che era
poco distante da lì.
Mengucce
aveva imparato
bene la lingua slava, ma anche noi altri comunicavamo senza
difficoltà con i partigiani di Tito anche perché
loro
parlavano abbastanza bene l’italiano. Ci salutammo e poi
seguimmo
strade diverse.
Fra i
partigiani slavi
c’era una disciplina molto rigida. Stemme mesckate maskle e
femene, ma t’jire stajie attinde, nan sia maje
t’azzardive
a dange pure nu pizzeche a jiune. Opure qualche d’une ca
veleve,
nan sejie…, t’jire ammandenejie percé
nan sapive,
angore chede te denunziave e passive i uajie.
Infine la
nostra divisione
entrò a Trieste assieme ai partigiani jugoslavi, dopo un
ultimo
scontro con i tedeschi. I triestini, con nostro grande stupore, ci
accolsero freddamente. Noi italiani ci chiedevamo: «Ma come,
siamo venuti a liberarvi dai tedeschi, rischiando la vita e voi ci
trattate così?»
Poi ci
raccontarono delle
foibe vicino Trieste e nell’Istria e di quello che la
popolazione
civile aveva subìto dai partigiani slavi, secondo me
all’insaputa di Tito. Noi obiettammo di non esserne a
conoscenza,
che eravamo italiani e non sapevamo nulla, che per liberarli avevamo
combattuto contro i tedeschi.
Restai
a Trieste ancora una decina di giorni e poi partii per far ritorno a
Cassano. A dire il vero, io e un napoletano ci infilammo di nascosto in
un’autocolonna di soldati italiani che venivano rimpatriati,
diretta a Udine, rischiando però di essere fucilati dai
partigiani jugoslavi se ci avessero scoperti. Infatti De Vito e
Peppino, gli altri due cassanesi che tornarono a casa circa un mese
dopo di me, erano convinti che fossimo stati puniti dai partigiani di
Tito per questa fuga.
Invece ci
andò
bene, nessuno si accorse di noi, né vennero a chiederci le
nostre generalità. Da Udine arrivammo in treno fino a
Forlì, dove facemmo una sosta presso un centro di
accoglienza
della Croce Rossa. Fummo disinfestati dai pidocchi e consumammo
finalmente un pasto caldo. Poi ci presentammo all’ufficio
preposto per la registrazione dei dati personali e delle nostre
generalità.
L’indomani
ripresi
il viaggio. Ci misi quattro giorni per arrivare al mio paese,
perché le ferrovie funzionavano a tratti a causa dei
bombardamenti che avevano subìto durante la guerra.
Comunque, un
po’ con i treni, un po’ a piedi, un po’
con qualche
camion, riuscii finalmente ad arrivare ad Acquaviva.
In famiglia
ormai mi
davano per disperso, anche perché erano andati a chiedere
notizie su di me a Mengucce u Latrecidde (Domenico Lionetti, ndr), il
quale era rimasto nascosto a Cefalonia presso una famiglia di greci,
finché i tedeschi non avevano lasciato l’isola ai
primi di
settembre del ’44, e poi era ritornato sano e salvo a
Cassano.
Ai miei
familiari
raccontò quello che era successo sull’isola greca,
dello
sterminio dei soldati italiani dopo la resa ad opera dei tedeschi.
Disse loro di non avermi visto fra i sopravvissuti e che le speranze
che io fossi ancora vivo erano pochissime, quindi ormai si erano
rassegnati.
Mi feci a
piedi gli ultimi
sei chilometri da Acquaviva, perché non c’erano
mezzi di
collegamento alle quattro del mattino. Mentre arrivavo a Cassano
incontrai mio zio (Vito Marino Giustino) che, dopo la sorpresa iniziale
nel vedermi, mi disse che era meglio che andasse lui a preavvisare i
miei perché mia madre stava poco bene già da
quando ero
partito soldato e in quel momento era paralizzata. La sorpresa nel
rivedermi improvvisamente avrebbe potuto nuocerle ulteriormente.
Quando mi
rividero fu
festa grande, nonostante mi presentassi con gli indumenti strappati e
pieno di pidocchi (fra noi soldati la presenza di pidocchi veniva
definita scherzosamente “la cavalleria rusticana”).
Tornato
al mio paese a guerra finita, pian piano ripresi contatto con alcuni
miei vecchi amici e compagni di squadra di calcio come Peppino Laterza,
mio grande amico che era stato ferito durante la campagna di Russia.
Cominciai
anche a lavorare
al mulino Campanale di Cassano in piazza Garibaldi, dove sono rimasto
per quasi 15 anni. Poi per ragioni di salute ho smesso. Il mio fisico,
duramente provato dagli anni di guerra e da tutto quello che avevo
passato, non reggeva a quel lavoro pesante, tanto che feci domanda per
la pensione di invalidità per problemi alla colonna
vertebrale,
infatti tuttora porto il busto. Di pensione di guerra niente, neanche a
parlarne!
In seguito
fui costretto a
trasferirmi a Bari con mia moglie e i nostri due figli, dove lavorai
come portiere. Nel ’46, tramite un amico
di famiglia e il mio datore di lavoro del mulino, avevo conosciuto e mi
ero innamorato di Lucia, che diventò la mia fidanzata e,
dopo un
anno, mia moglie con la quale condivido l’esistenza da ben 66
anni. Abbiamo quattro nipoti e da poco siamo diventati bisnonni.
|